Un labirinto di pieghe
Vorrei riflettere sul concetto di confusione inteso come caos che nasce da questo labirinto di linee.
Il lenzuolo di Paolo Facchinetti rappresenta questo momento particolare di disorientamento, l’incapacità di dare una risposta agli accadimenti, una sorta di afasia di fronte alla complessità del cammino, ma anche una paralisi; non un momento di paziente riflessione ma una stasi obbligata dove prevalgono paure, dolore, mancanza di senso e l’impossibilità di orientarsi.
Confusione è tutto questo dolore sordo senza risposta, esposizione al nulla, abbandono; questa caduta rende sempre più vulnerabili, ma come ci dice l’ascolto della parabola di Giobbe (libro sapienzale di Giobbe – antico testamento), al fondo di una totale alienazione e contro ogni razionale giustificazione del male, il patriarca bibblico conosce nuovamente la forza e la grazia per ritrovare se stesso; dalla totale nudità e dal labirinto della solitudine disperata, come il letto sfatto da una notte insonne che il lenzuolo di Paolo Facchinetti disegna e rappresenta, al ritrovarsi fuori dall’incubo: “E quindi uscimmo a riveder le stelle”(Inferno XXXIV,139, Dante Alighieri).
Il lenzuolo-sindone di Paolo Facchinetti, con le sue pieghe che parlano di un corpo reale, simboleggia tutto questo e contiene quel cosmo che non vediamo o che vediamo a fatica; il labirinto ha sempre una via di uscita, l’accadere quotidiano della rinascita, come succede a Tobia (libro di Tobia – Bibbia dei Settanta) quando ritrova la vista che è, al fondo, la capacità di vedere il miracolo che accade davanti a noi ogni giorno.
Forse occorre…un angelo…un amico vero, come succede per Giobbe e per Tobia, perché possiamo compiere il passo decisivo e seguire lo stesso orientamento che venne dato ad Abramo quando partì dalla terra di Ur dei Caldei in Mesopotamia: “Lek Lekà”, va verso te stesso (Genesi,11-25).
28 marzo 2021
Sindoni
Il lenzuolo informe contiene l’informazione sul corpo assente e la necessità di ri-formare; il lenzuolo è l’Aletheia, velamento e rivelamento, ri-velazione, eco di un battito, respiro e pulsazione vitale, assenza che intimamente de-sidera la pienezza.
Vortice di gioia generato dalla dolorosa Via Crucis dove l’uomo ri-trova se stesso, il suo nome, il suo oriente culminato nell’ascesa al Golgota (Cranio) dove misteriosamente trova la sua verticalizzazione: la croce diventa l’albero al centro dell’Eden, l’albero della vita, piena luce della conoscenza, resurrezione dell’Essere.
Le lenzuola di Paolo Facchinetti rappresentano il quotidiano, ogni lenzuolo è parte del racconto, “uno” e insieme storia intima di diversità; il lavoro di Paolo è entrare nelle pieghe di queste intimità dove protagonista è il corpo, vero tempio dello spirito che diventa il Risorto, il verticalizzato (come nel famoso affresco di S.Sepolcro di Piero della Francesca).
Come ricorda Facchinetti è anche la morte avvolta nel lenzuolo sudario, questa apnea profonda dello Shabbat, mistero nel mistero della vita, il male dell’altro lato dell’albero bibblico che l’ebraico traduce come “ non ancora luce “, l’indicibile del “mei tasèr” di Cesare Zavattini; la Pasqua è la risposta, follia pura per lo sguardo della razionalità umana, accadere di un possibile nell’impossibile, dove il respiro dell’universo torna a pervadere ogni cosa dopo un tempo debito simboleggiato dai 40 giorni e rappresentato dalla quarta lettera dell’alfabeto ebraico “dalet” che significa “porta”.
La morte innalzata, la morte al centro sconvolge ogni potere, qui esiste e si fa spazio una libertà assoluta; l’artista sceglie, con un sapere al di là di ogni sapere, di disegnare le pieghe, come se ogni piega fosse un’individualità assoluta irripetibile; egli sa che non esiste un punto di vista universale, non esiste un centro, ogni piega da origine a un punto di vista differente.
Scegliere di disegnare un lenzuolo con le pieghe di un lenzuolo sopra un lenzuolo è una operazione concettuale radicale, ha a che fare con la cura, l’abisso del “si muore”, il nulla; al di là del sapere il corpo, una filosofia del corpo d’ogni piega è un fuori (del corpo avvolto nel lenzuolo) che diventa dentro.
Mi confermo in questo come l’artista solo, con uno sforzo sovraumano tocchi il corpo delle cose e chieda un riscontro senza mediazioni con il nostro sentire suscitando un dialogo spontaneo; e ancora la coazione a ripetere lo stesso diverso oggetto più volte è come la necessità di confermare una verità che si sa di non sapere ma dove ne giudichiamo centrale la sua ripetizione.
Mi piace pensare a questo lavoro di Paolo Facchinetti, nato per la mostra “20 stazioni” che si svolgerà nella biblioteca di Nembro e sviluppatosi con la forza di un lavoro autonomo fatto di schizzi preparatori, ritrovati e ripensati, culminato in una produzione seriale accostando queste lenzuola disegnate alle 14 stazioni canoniche più una (la Resurrezione) della via Crucis e della Via Matris Dolorosae; ogni tessuto rappresenta singolarmente in maniera simbolica, indefinita e indefinibile, una parte del percorso e insieme la sua unità assoluta; le stazioni sono punti di fermo, di riflessione, in un percorso senza sosta, senza tempo, dove tutto è già contenuto nell’epilogo che è il “ sempre presente” della Resurrezione ( già nella prima stazione, “la liberazione di Bar-abba”, al di là della interpretazione letterale del testo, è l’inizio di un cammino di liberazione del “figlio del padre” già inscritto nel suo nome).
Paolo Facchinetti nella sua poiesis “sente” tutto questo quando citando le opere di pittori che hanno fatto la storia dell’arte focalizza il dettaglio astratto dei loro panneggi e dice: “Allora…ecco cosa fare, dipingere un lenzuolo su un lenzuolo, diario di sonno, veglia, dolore, gioia, malattia e guarigione, in alcuni casi anche di morte. Memoria di un tempo che ci ha travolto e ancora ci lascia i segni.”
Cene, 10 marzo 2021