Vita, arte, mostre e libri

Terre e cieli

La parola paesaggio in Occidente nasce tardi, nel XVI secolo, dopo che l’arte ha generato le immagini della natura. Prima di allora montagne, fiumi sovrastati da cieli avevano luogo solo come entità fisiche, non come oggetto che si dispiega nella sua vibrante meraviglia allo sguardo dell’artista. Dove si vede un paesaggio – in una scena religiosa o politica – è sempre simbolico, per quanto realistico possa sembrare, e sta, come il fondale di una scena teatrale, a raccontare una realtà altra da sé: che siano alberi per il giardino del paradiso, case e strade come metafora di una città, cieli trapunti di stelle per aiutare a presentire l’immensità del Paradiso.
Arriva, il paesaggio, con la stagione dell’Umanesimo e del Rinascimento, quando l’uomo si pone in mezzo alla realtà, vivo testimone della storia, osservando e disegnando. È una premessa importante per leggere queste opere, a cinquecento anni di distanza. Terre e cieli, nati dalla vertigine dello sguardo che parte dal basso, dalla coscienza di ciò che è peso, materia, terra, erba, acqua, per librarsi in un istinto al volo verso l’alto, dove nulla resta a cui ancorarsi, come un tuffo a rovescio. Nessun uomo qui, nessuna donna. Niente. Il vuoto però non abita queste tele, che sono un inchino silenzioso alla natura, un passo indietro del protagonismo delle immagini per ritornare a quell’aniconismo, tipico dell’ebraismo e dell’islam, che rifiutava la riproduzione del divino per accogliere a piene mani il resto del creato.
«Ci sono più cose in cielo e in terra, Orazio, di quante tu ne possa sognare nella tua filosofia», così diceva l’inquieto principe di Danimarca, e questa ricchezza la percepiamo penetrando le terre e i cieli di Paolo Facchinetti. Sentiamo aria fredda e tersa, quasi di vetro, profumi, crepitii, vento, la fuga delle nuvole, l’umido della terra e lo spostarsi dell’erba. Serve che l’uomo si faccia da parte, che l’artista decida, con estrema tensione, di mettere ogni fibra del suo sguardo, ogni tendine del braccio e delle dita, in ascolto muto di quell’universo che Galileo, un maestro dello sguardo, aveva definito «grandissimo libro che continuamente ci sta aperto davanti agli occhi».
Questo piccolo catalogo si apre a sua volta su un altro libro, che costituisce una sfida titanica e poetica al tempo stesso, perché l’artista ha nel tempo scritto cieli, uno per pagina, non sotto l’effetto effimero della visione, ma con la pratica ascetica e solitaria del ricordo. È il cielo – così mutevole, ma da sempre legato alla capacità umana di raccogliere le sfide, di avere coraggio, sogni, tenacia – a diventare criterio di misura e verifica della memoria, in un metaforico e prezioso diario che celebra la liturgia di uno sguardo, la pratica costante della pazienza e ci indica la via a rinnovare, ogni giorno, lo stupore per l’infinito.

Giovanna Brambilla, 11 novembre 2020

Come in Terra, così in Cielo

Quindici rettangoli per terra, stretti e ravvicinati, e uno, grande, di fianco all’altare. Lo sguardo li percorre, passando da uno all’altro, cercando vanamente di identificare o riconoscere figure, forme rassicuranti, immagini didascaliche, e poi arriva a posarsi su un cielo scuro, nuvoloso, senza colori, inquieto, che si eleva come una pala d’altare vuota sul lato opposto rispetto all’ambone. Forse è di questo che abbiamo bisogno tutti, ora, di non avere immagini, di non sentire rumore, di non distrarci nei linguaggi di quella comunicazione che costantemente ci raggiunge, ci incanta, ci isola, e ritornare all’essenziale. È la prima volta che Paolo Facchinetti, l’autore, si confronta con uno spazio sacro, con la richiesta di mettersi in ascolto di un tema – quello delle Beatitudini – scelto per accompagnare il cammino pasquale della comunità; ne è nato un lavoro sorretto da una riflessione profonda e da una grande generosità creativa: le opere che si dispiegano allo sguardo sono state create per questo luogo, e per costituire una narrazione silenziosa.

Si parte dalla terra, è qui che stiamo, è qui che si gioca il senso della nostra esistenza, che costruiamo ciascuno il proprio cammino, e i quindici rettangoli stretti sembrano pietre di un guado, traversine di una ferrovia senza binari, invito al viaggio. Sono quindici sagome realizzate interamente dall’artista, dalla parte più semplice, la struttura di legno, a quella che fa da supporto all’opera, la carta Fabriano, trattata con sapienza, per diventare supporto della pittura. Che cosa indica questo passaggio se non l’idea ebraica di Pasqua – Pesach -, di passaggio, che diventa poi il passaggio della Pasqua cristiana? Ma non c’è solo questo: quindici è un numero che nasce dalle quattordici stazioni della Via Crucis, simbolo dell’itinerario della Passione, unite a un’ultima stazione, la più importante, sempre assente, quella della Resurrezione, a ricordare che la sofferenza non è stata la fine, che l’arrivo è altro, ma c’è qualcosa, nella genesi di queste opere, che giace nascosto al loro interno e ne costituisce la più intima sostanza.

Il foglio su cui l’artista ha lavorato nasce come materiale di scarto, come carta “a perdere”, avanzata da lavori più grandi, e – come la pietra scartata dai costruttori divenuta testata d’angolo – queste strisce di carta, lunghe e strette, sono diventate un alfabeto nuovo, capace di portare un segno. Il titolo della serie, Immagine ritrovata, riscatta una carta senza valore, che diventa opera, montata su un legno che non è croce, strumento di martirio, ma sostegno al passo e allo sguardo; l’inserimento della quindicesima stazione con la sua presenza fa virare la percezione della Via Crucis dalla celebrazione del dolore allo stupore delle Resurrezione. Non ci sono immagini visibili su queste opere, ma tracce di colore, segni della presenza dell’artista, della sua capacità immaginifica, del suo desiderio di lasciare una traccia di sé, un’impronta discreta nella storia, quella con la s minuscola, una materializzazione del proprio talento.

Questa è la terra, questo è il nostro passaggio, ma l’ultima traversina, l’ultimo gradino, la stazione finale, è un ponte verso il cielo, verso la tela che attira l’attenzione, livida, contrastata, quasi memore di quel cielo che si oscurò. I Cieli di Paolo Facchinetti non sono mai immaginati, sono sempre cieli che egli osserva, che guarda, soprattutto verso sera, per poi portarli con sé e dare loro vita su una tela, la mattina dopo. La sua è un’arte che parte sempre dal dato reale, dall’osservazione attenta dei laghi, dei rami, dei boschi, delle foglie, e dei cieli, non c’è bisogno di inventare altro, perché quello che si dispiega ai nostri occhi ha una ricchezza tale da tenere il suo cuore, la sua testa e la sua mano impegnati in una costante tensione che vuole riuscire ad essere omaggio – il più veritiero possibile – alla natura. Lo sguardo di Paolo Facchinetti, in questi ultimi anni, si è mosso con un nomadismo inquieto dalla terra al cielo, dallo sguardo basso e ravvicinato verso i rovi, le sterpaglie, i canneti – che ritornano solo evocati nel sentiero disteso sul pavimento della chiesa – allo sguardo rivolto al cielo, uno spazio diverso, senza prospettiva, senza confini, una finestra senza telaio, infinita, una profondità incolmabile e non misurabile, che trasposta sulla tela ritorna ad avere un limite e un confine per poter essere compresa dall’uomo. È vero, Paolo Facchinetti i cieli non li inventa mai, li trattiene nella memoria, tutti, fatta eccezione per questo cielo livido, che non esiste, che vuol essere solo una tenda, un sipario per l’attesa, non diversamente dalle quattordici Immagini ritrovate. L’artista questo cielo non l’ha mai visto, ma gli dà vita, forma sostanza, lo compone mettendovi la paura, la fatica, il dolore, il senso di smarrimento. Non sarà sempre così, la tela è un passaggio, perché a Pasqua verrà sostituita da un Cielo azzurro, luminoso, uno di quelli visti davvero e salvati, come se avesse voluto in qualche modo trovare un’immagine per quanto l’apostolo Paolo scrive nella Prima Lettera ai Corinzi: “Non voglio infatti che ignoriate, fratelli, che i nostri padri furono tutti sotto la nube, tutti attraversarono il mare”, lì dove la nuvola e il cammino si incontrano, come accade nella Bibbia, come si è cercato di fare, in questo tempo forte, in Chiesa.

Giovanna Brambilla, Bergamo 14 marzo 2019

Tzimtzum

Nella cabala ebraica צמצום – tzim tzum – è ciò che rende possibile la creazione del mondo da parte di Dio. Il suo significato, difficile da rendere in italiano, corrisponde all’atto del ritrarsi, come all’onda che indietreggia per riuscire a coprire la sabbia nel moto successivo, come l’azione di espirazione prima di gonfiarsi i polmoni con l’aria, e indica l’atto con il quale Dio si ritrae in se stesso per “fare spazio” a ciò che vuole creare.

L’intero lavoro di Paolo Facchinetti si gioca su questo, sulla dialettica composta, silenziosa, perseguita con un lavoro di ricerca in continua tensione, tra la materia e l’idea. Guardando i suoi lavori emergono una rarefazione e una contrazione tali da non fare affiorare al pensiero il peso e la fatica di un grumo materico eppure, per comprendere appieno un’opera, per andare al di là dell’estetica della pelle, credo che sia sempre più necessario il tempo della comprensione e dell’esplorazione del viaggio, del lavoro invisibile delle mani, del pensiero che ha presieduto alla formulazione di una poetica.

Non si vuole negare l’importanza dello sguardo sull’opera, ma uno sguardo – spesso veloce, spesso connotato da una voracità estetica, che accarezza le superfici trovando piacere nella loro apparenza – non è un occhio che va a fondo. Al di là dello sguardo c’è la visione, il desiderio dello scavo, dello scarto, dello scavalco rispetto alla prima impressione, la necessità di superare il puro dato sensibile e la consapevolezza che solo sapere qual è stato il processo creativo può rendere ragione del lavoro di un artista.

Le opere di Paolo Facchinetti selezionate in questo catalogo vedono il dispiegarsi allo sguardo di una serie di lavori che possono, seppure nella loro diversità di tecniche e supporti, essere definiti come “paesaggi” o, meglio ancora, “landscapes”. Il termine italiano, infatti, è radicalmente diverso da quello inglese, perché “paesaggio” implica l’antropizzazione del terreno, la visibilità del lavoro con cui l’uomo segna i luoghi al suo passaggio, possedendoli e trasformandoli. Il termine inglese, invece, parla di terre e di fuga, di spazio in cui perdersi ed evadere, con un’ansia di superamento della finitudine delle frontiere.

Nella storia dell’arte il paesaggio diventa forma pittorica indipendente e autonoma dalla fine del XVI secolo, quando cessa di essere un contenitore di eventi umani che vedono una gerarchia figurativa in cui è la presenza di Dio, o quella dell’uomo, a dare giustificazione della raffigurazione di terre, mari, piante. Eppure, nelle grandi narrazioni cosmogoniche delle diverse civiltà, l’uomo arriva dopo il paesaggio.

Prima c’è il nulla. È necessaria la presenza del vuoto perché ci sia uno spazio, e questo spazio possa poi accogliere le immagini del creato: le prime ad arrivare sono le linee di demarcazione tra gli elementi fondatori del cosmo, tra la luce e l’ombra, che possono definire gli oggetti, sino ad arrivare ad acqua, terra, liquido e solido. Nella cultura orientale, così come nella percezione dello sguardo di quei popoli, non esiste tuttora alcuna priorità gerarchica, né cognitiva, tra primo piano e sfondo, uomo, natura e cose, mentre nell’arte europea questa gerarchia iconografica ha dato vita a una precisa codificazione dei generi pittorici in una scala di importanza che vedeva nella posizione più eminente la grande pittura sacra, storica e allegorica, fino al livello più basso, con i quadri di genere: scene popolari, interni, paesaggi, nature morte.

In questo status quo sparigliò le carte la riforma protestante, che come un rasoio di Ockham levò dalle chiese le immagini religiose – fatta salva la croce –, escluse la Madonna e i santi dalla devozione e dal culto e puntò lo sguardo sull’umanità e sulla dignità di quanto è terreno, spostando il punto di vista dal cielo alla terra. Ed ecco che, a partire dai Paesi del nord Europa, la pittura di paesaggio si libera dai prestigioso abitanti, diventa autonoma, acquista piena dignità, celebra a modo suo la vita, e lentamente sposta sulla natura la rappresentazione del teatro dell’anima e dei sentimenti.

Certo, fu un cammino lungo, che passò anche attraverso il grande snodo dell’Ottocento, quando i pittori iniziarono a dipingere per se stessi, per dare vita ai loro sentimenti e alle loro inquietudini, senza diventare portavoce neutrali della committenza, e anche la fotografia contribuì a questo cambiamento di paradigma artistico, perché liberò i pittori dal vincolo della rappresentazione del reale. L’ultimo giro di vite lo diedero l’espressionismo, che aprì il vaso di Pandora del cuore degli artisti, legittimando la possibilità di modificare visivamente e cromaticamente la realtà in cui ci si trovava a vivere, e l’infiltrazione dell’arte giapponese, che portava alla ribalta la possibilità di dare al bianco e al nero lo status di colori veri e propri e non di mezzi di gradazione delle tinte.

Questo breve excursus mi era necessario per evidenziare una serie di elementi che certamente sono presenti, anche se sottotraccia, nei lavori di Paolo Facchinetti: il paesaggio, la priorità della soggettività, la fotografie e l’uso quasi esclusivo del bianco e del nero. In ogni sua opera è presente la partenza dal dato figurativo, che però è un avvio, e non un approdo. Lo diceva già il filosofo Francis Bacon: “ars sive additus rebus homo”, ovvero  l’arte è l’uomo aggiunto alla natura, l’uomo come elemento catalizzatore, in grado di modificare la natura per seguire il miraggio di un’idea. Qui l’artista parte da immagini, da istantanee, Polaroid, fotografie ricavate con lo smartphone, che sono materiali connotati da una straordinaria immediatezza nella loro genesi: l’ottica di questi strumenti, incredibilmente recettiva, imprigiona un frammento di spazio. Ma l’istantanea, l’attimo fermato, non può essere meta o fine, non nella poetica di Paolo Facchinetti: l’artista deve appropriarsene, deve ritrovarsi e perdersi, deve imprimere la sua poetica alla materia.

Qui si pone una scelta nell’operare artistico: aggiungere o levare. Intervenire sul dato materico, fisico, scenografico di partenza per aggiungere elementi, arricchirlo con suggestioni, offuscare lo sguardo con oggetti e dettagli capaci di disperdere l’unità della visione, oppure procedere per via di levare? Eliminare con tenacia tutto ciò che ancora la visione alla riconoscibilità degli oggetti e che ferma l’istinto al volo? Tagliare i rami secchi dell’immagine per farla germogliare a nuova vita? L’artista sceglie la seconda strada, quella più ardua, quella che non gioca da affabulatore con lo sguardo viziato dello spettatore, avviando il processo di una vera e propria metamorfosi, di una reale creazione, in cui Paolo Facchinetti è sorretto da una strenua volontà di sperimentazione tecnica; egli aggira la materia, la testa, la elabora, procede a tentoni, convinto che la verità artistica stia in questa profonda ricerca di corrispondenza tra l’opera e ciò che vi si vorrebbe vedere, vedere per davvero.

Le opere di Paolo Facchinetti sono, allora, dei paesaggi dell’anima ottenuti per via di levare, paesaggi nell’accezione inglese del termine, realizzati attraverso passaggi non lineari, decantazioni, scarpate, come nella pratica della composizione degli haiku, in cui all’apparente semplicità della composizione corrisponde un continuo lavorio di purificazione, per costringere la materia – in quel caso verbale – a piegarsi per raccogliere e donare un’emozione a chi ascolta.

Un paesaggio è riconoscibile solo se esiste una luce che lo attraversa, la luce è l’elemento fisico che rende visibili i colori e, nell’ascetica e inesausta ricerca dell’artista, è proprio nello sfrondamento dell’opera dai colori che la luce si fa davvero visibile.

L’importante, in questa poetica, è il “prima”, è lo tzim tzum, il contrarsi e il ritrarsi dell’immagine per accogliere il concetto primigenio affiorato nella visione mentale dell’artista. Nei lavori qui riprodotti appare l’evento fondatore, prima che si verifichino i suoi effetti, il raggio di luce che attraversa l’oscurità, prima del suo dispiegamento cromatico sulla vita. L’apparizione prima della comprensione: la luce arriva levando la materia, la luce dilaga facendo vuoto, viene ricreato uno spazio per l’apparizione.

Anche le forme emergono attraverso il ritrarsi: così, nelle opere di Paolo Facchinetti, attraverso un velario quasi impalpabile, che non vuole essere un virtuosistico inganno dell’occhio, bensì uno strumento di conoscenza e consapevolezza, emergono e si intuiscono calligrammi raffinati e rarefatti, che prendono forma sotto i nostri occhi, che ci invitano a un viaggio oltre la superficie.

In alcuni di questi lavori si ha come l’impressione di guardare un riflesso, di potersi confrontare con un’immagine che ci raggiunge attraverso una sorta di mediazione visiva, sembra di vedere un’ombra riportata, come se il supporto fosse un angolo di rifrazione e di riflessione di qualcosa che è ancora troppo forte per poter essere affrontato direttamente. Così l’opera, più che un’epifania, diventa – e si va sempre per via di levare – il parlare di qualcosa attraverso la sua assenza: parlare della luce attraverso delle ombre palpabili, come sciabolate, parlare del colore attraverso il monocromo, di quanto è terreno attraverso un linguaggio immateriale, dello spazio infinito attraverso la bidimensionalità della superficie, con un alfabeto pittorico portato all’existenz minumum.

“E gli uomini vollero piuttosto le tenebre che la luce”: così scrisse l’evangelista Giovanni sulla fatica dell’uomo di affrontare la vita, sulla facilità di un’esistenza che non vuole fare alcuno sforzo per andare oltre la superficialità delle cose, ma la vita è composta di luce e di ombra, l’una non si dà senza l’altra e l’artista, allora, è una soglia che sfida l’osservatore.

L’opera diventa una porta, un elemento ambiguo, che può aprirsi o chiudersi, farsi varco o barriera, senza mai rinunciare ad essere un invito.

Settembre 2015