Più di un anno fa Audelio Carrara scriveva una lucida presentazione sul lavoro dell’amico pittore Paolo Facchinetti. Mi riesce davvero difficile aggiungere considerazioni che entrino con altrettanta puntualità nell’opera di Paolo Facchinetti.
Un solo aspetto mi sembra che Audelio abbia lasciato un po’ in ombra parlando dell’amico: intendo dire della sua qualità etica, l’attenzione continua, l’intensità della ricerca e la quotidianità del lavoro, che rendono autentica la vicenda pittorica ed umana di Paolo Facchinetti e danno intensità alle sue tele.
E poi il suo carattere, così definitivo, scontroso, forse un po’ triste, che lo porta a chiudersi sempre più nel suo studio: ad inseguire la facilità di un gesto, di una macchia, di un segno, nell’angosciata volontà di conferire a tutto ciò il senso della verità. Contraddizione o sintesi tra il felice inseguimento di una chimera personale o l’ostinato desiderio di oggettività.
Tuttavia è proprio l’istinto e il mestiere che salvano Facchinetti, quando l’angoscia esistenziale sembra divenire un semplice alibi.
Il mestiere, più che la sua fede o l’ideologica, lo salvano dal contagio e dal fanatismo degli sciocchi. Troppi invasati passano per visionari, troppi ignoranti per ingenui. Non ci si può illudere che la pittura possa salvare il mondo; e, da Picasso in poi, nessuno più si domanda se un’opera sia bella o brutta. Ecco, il lavoro di Paolo Facchinetti si muove lungo i difficili confini che separano l’utile dal futile, la certezza dalla presunzione, la qualità dal virtuosismo. Potrebbe apparire un inutile sforzo, eppure l’avanzare anche di un solo passo su questo impervio sentiero costituisce l’obiettivo a cui vale la pena di aggrappare la propria vitalità.
Attilio Pizzigoni, febbraio 1990