Vita, arte, mostre e libri

Ho conosciuto Paolo Facchinetti nei primi anni novanta, aveva già all’attivo alcune mostre personali. Dipingeva quadri di grande formato, con la vocazione per i colori puri, tendenzialmente freddi, spesso associati ad ampie campiture di bianchi e neri.  Sulla tela si alternavano stesure di colore piatto con superfici molto addensate e materiche. L’astrazione era il suo chiodo fisso, la sua ossessione. Poi il lavoro in studio ha preso altre direzioni, alle composizioni astratte si sono affiancate opere d’impronta  più figurativa e  in questi ultimi dieci anni il numero di esposizioni  personali e collettive si é moltiplicato, segno di una acquisita consapevolezza delle proprie qualità espressive e di una consolidata maturità creativa. Va sottolineato che questa disponibilità a non sottrarsi al giudizio del pubblico non si è tradotta in una mera ripetitività di consolidati moduli espressivi, ma ha dato vita a lavori improntati a temi specifici, a “generi”, come nel caso del ritratto, distinti nella forma e nei contenuti. Se il linguaggio pittorico si è sempre declinato tra realtà e astrazione il metodo operativo e il senso ultimo del suo lavoro non è mai cambiato, è rimasto costante l’atteggiamento sperimentale, la ricerca di nuovi percorsi espressivi e la consapevolezza degli esiti imprevedibili e dei rischi che questo atteggiamento comporta.

E’ nata con queste premesse la mostra che si snoda lungo le pareti delle Stanze presso la Biblioteca comunale di Trescore. Otto grandi tele e cinque opere di medio formato accompagnano lo sguardo di chi percorre gli spazi espositivi di questo luogo così carico di storia. Sono tutte opere che l’artista ha espressamente realizzato per questo evento, legate da un unico soggetto: il paesaggio. Paolo ha scelto il titolo  Landscapes  perché “…il termine inglese parla di terre e di fuga, di spazio in cui perdersi ed evadere, con un’ansia di superamento della finitudine delle frontiere” (dal testo critico di Giovanna Brambilla per il catalogo Tzimtzum).

Il tema del paesaggio, come ambito di ricerca, emerge in opere di molti artisti contemporanei di matrice europea: da Barcelò, con le sue visioni dei deserti africani, a Kiefer con le sue pianure desolate e materiche, sino ai coloratissimi teleri di Peter Doig. Nel nostro Paese dopo la stagione novecentista che ha visto artisti del calibro di Sironi, Carrà, Morlotti, Morandi, De Pisis misurarsi con questo tema, solo negli ultimi anni sono ritornati a confrontarsi con il paesaggio artisti quali Guccione, Tullio Pericoli e i più giovani Velasco, Frangi e Andrea Mariconti. Nei quadri esposti in mostra Facchinetti affronta questo soggetto lontano da suggestioni cromatiche in chiave neo espressionistica, come emerge dalle opere di alcuni degli artisti che ho citato, adotta invece un scala cromatica limitata al solo bianco e nero. E’ una scelta radicale, emersa in altri precedenti lavori, realizzati, come nei processi alchemici medioevali,  mescolando i due colori con  vernici,  colle e altri “intrugli” che sembrano trovare una qualche complicità con il lavoro dei monaci cistercensi che nella Francia del XII secolo riuscirono a realizzare  vetrate monocrome per attenersi ai dettami di San Bernardo, che condannava gli eccessi cromatici, colpevoli di distrarre i fedeli dalla preghiera.   Da dove attinge Paolo le immagini che danno origine alle opere esposte a Trescore?  Non è a mio avviso la fotografia il primo modello di riferimento. In questa mostra Facchinetti presenta una serie di scatti realizzati con la Polaroid, sono fotografie di piccolo formato che denotano l’interesse dell’artista nei confronti di un mezzo fotografico che si presenta alternativo alle immagini digitalizzate prodotte dagli smartphone.  Sono immagini dai colori sbiaditi che lasciano intravedere luoghi imprecisati, forme fantasmatiche, sguardi di un visibile profondamente diversi dalle tracce che danno origine ai quadri  esposti nelle  Stanze.   E’ sempre la pittura con i suoi codici linguistici l’elemento identitario e fondante del suo lavoro; nei paesaggi presenti in mostra non ricerca un racconto esplicito, ma cerca nelle pieghe della memoria i percorsi possibili per dare forma alle proprie “visioni”.  Nella mescolanza del nero con la sola acquaragia, si evidenziano una serie di tonalità di grigio che nella prima stesura rasentano l’astrazione. Poi nella sovrapposizione della materia pittorica, nella riduzione del colore a semplici velature le immagini risultano più nitide e così  i  bianchi  della tela si fanno carico dei percorsi visivi che accompagnano lo sguardo dello spettatore, mentre le rapide pennellate di colore nero danno forma agli elementi vegetali che connotano le immagini dei quadri.

Dalla nebbia che riduce la percezione dello spazio emerge il greto di un fiume e avverti in lontananza il pigro scorrere dell’acqua. Nessuna presenza umana in questo paesaggio che non sembra avere subito l’oltraggio dell’uomo, solo il vento si diverte a scompaginare il ritmo verticale dei canneti dipinti sulla tela con  un intreccio di rapide e graffianti pennellate.

Sono le rive del fiume Serio, poco distanti dallo studio di Paolo, il luogo privilegiato che ha dato origine e forma ai dipinti. Nei percorsi che si snodano lungo le sponde del fiume, Facchinetti ha cercato di indagare e memorizzare le forme più umili e nascoste  che la natura conserva e che solo uno sguardo attento e sensibile è in grado di percepire.

Un grande artista inglese del Novecento, Graham Sutherland, ha citato più volte nei suoi scritti del suo paziente vagare per la campagna del Galles sottolineando che l’artista dovrebbe sempre dipingere il paesaggio che sente proprio, in cui abita e che gli suggerisce le più intense emozioni. Paolo Facchinetti ha fatto proprio l’invito di Sutherland, l’intera mostra testimonia l’empatia dell’artista per questo fiume, per gli intricati percorsi che si snodano lungo le sue sponde e che si sono rivelati fonte d’ispirazione per un ciclo di opere di profonda sensibilità narrativa.

Chiudo questo mio breve contributo alla mostra di un amico, evitando di aprire scenari sullo stato dell’arte contemporanea, vista la babele di linguaggi che la attraversano; il rischio è quello di cadere nei soliti luoghi comuni, o in giudizi superficiali  e banali, mi  preme però citare ancora una volta Graham Sutherland che in   un suo taccuino  denso di appunti e di disegni scriveva : “ Ritengo impossibile che si arrivi un giorno a creare un’arte totalmente avulsa dall’uomo e dalla natura e che, nel caso, essa risulti degna d’interesse”.

Maurizio Bonfanti, Marzo 2018