Sguardi, bocche, occhi, zigomi: per Paolo Facchinetti l’orizzonte del mondo coincide con i confini del volto umano. Nei suoi margini, limitati e spazialmente contenuti, è l’immensa riflessione sulla vita stessa.
Mai un volto qualunque, mai un profilo anonimo, sempre – al contrario – un’immagine carica del fardello delle emozioni e degli affetti: gli amici, i colleghi di lavoro, i familiari, se stesso.
Al pari di un antico maestro di quell’Accademia bergamasca da cui proviene professionalmente, Paolo Facchinetti è capace di sviluppare tematiche esistenziali e di produrre saggi di maestria tecnica senza spostarsi troppo dal luogo tradizionalmente preposto alla significazione vitale: il volto umano.
Certo, da figlio del suo tempo quale non può non essere, esce spesso in cenni frammentari, in messe a fuoco parziali che rompono drammaticamente l’unità consolidata della sua riconoscibilità iconografica, ma si tratta di una segmentazione “produttiva” e non distruttiva. Giustificata non da un intento dichiaratamente negativo nei confronti della realtà, ma da una esigenza di approfondimento e di analisi ravvicinata della realtà stessa. Infatti allo studio di singoli particolari, magari fermati su carta da un carboncino solitario ma efficace (”Sguardo” 2001, matita su carta, “Studio per ritratto del Dott. E. Daina”, 2000, “Bocca” 2001), segue la rielaborazione matura e completa dell’oggetto-volto, prodotta nella più classica delle tecniche: l’olio su tavola.
In queste opere si esprimono a pieno la personalità umana e la competenza professionale dell’autore, che sceglie il territorio più difficile per confrontarsi con la realtà: il ritratto.
Paolo Facchinetti mostra di sapere che conoscere la realtà non è rappresentarla, bensì costruirla, che niente esiste fuori dell’uomo e indipendentemente da esso, ma tutta la realtà esterna all’uomo dipende dal suo sguardo creatore. Nel ritratto, l’operazione di ri-creazione artistica è resa più complessa dalla tacita regola della “necessità di somiglianza”, che serve ad arginare gli eccessi di una eventuale “deriva” interpretativa (per usare un termine caro a Umberto Eco), ma conserva comunque tutte le caratteristiche dell’autentico percorso artistico-creativo, teso non ad avvicinarsi alla realtà, ma a crearne una nuova, quella appunto dell’opera d’arte.
Così la riflessione esistenziale, in un felice momento di unione all’abilità tecnico espressiva, dà luogo ad un mondo nuovo, in cui l’attribuzione di senso alla realtà più complessa fra quelle esistenti – l’uomo – si esprime ai suoi livelli più maturi.
E’ un percorso che rimanda direttamente ai padri riconosciuti della pittura moderna, ed in particolare a quel Van Gogh cui si riconosce una potente tensione morale, poi lentamente accantonata in favore di un dilagante interesse per l’elemento linguistico che ha preso il sopravvento nel tempo successivo.
Spendendo le sue energie creative nella figurazione ritrattistica, Paolo Facchinetti finisce per riannodare filoni di ricerca lasciati sospesi da decenni, ma culturalmente mai superati.
Ne scaturiscono opere che alludono ad una sorta di sostrato esistenzialista, tipicamente lombardo e bergamasco (si veda “Anima persa”, un’opera che sarebbe piaciuta a Giovanni Testori, o “Studio per testa”, 2000, che sembra avere l’essenziale espressionismo di un Varlin), da cui l’autore si riscatta ideologicamente con prodotti di grande respiro emotivo come nella serie degli “Sguardi” ad olio, autentiche pure emozioni.
Il volto, e i suoi dettagli, si mostrano in una imponente tridimensionalità ottenuta con un uso sontuoso della materia pittorica, sempre in dialogo aperto con il contesto atmosferico, che illumina di bianco-luce le zone più aggettanti. Qualche volta, anche in un andamento sostanzialmente monocromo dell’opera (“Ritratto all’amico pittore Maurizio Bonfanti”) è possibile ravvisare la sensazione del contesto in cui l’oggetto è inserito.
Restano solo da registrare infine alcuni originalissimi impianti iconografici, come la plurisequenza di “Men. 1999”, una sorta di uomo nella storia, oppure l’”Autoritratto” strutturato e quasi didascalico in cui alla parziale presenza di se stesso si aggiungono le rappresentazioni simboliche del suo contesto esteriore – Bergamo – ed interiore – i pennelli -. L’importante abilità tecnica dell’autore offre in quest’opera (ma il caso non è unico) un godibilissimo brano di pura pittura nel chiarore tattile e armosferico della camicia, quasi un omaggio ad una tradizione della pratica pittorica tanto antica quanto – forse – modernissima.