Nel nome di Valmarina
Le geografie dilatate e i cieli aperti di Paolo Facchinetti dialogano con i suoi Intrecci. Memorie di radici, di rami potati, labirinti di circolazioni sanguigne, ricami di radica, resti di sottobosco abbandonati. O più semplicemente radici vaganti. Sfondi di cieli, evocati attraverso sfocamenti mirati, che, rinunciando alla verosimiglianza di particolari descrittivi, consentono un infinito vedere oltre. Colori polverizzati, esplosi come da luci primordiali del primo giorno del mondo. Cielo, suolo e sottosuolo. Non si può fare a meno di richiamarci a qualcosa che ci è noto, nel leggere i lavori di Facchinetti (vedute di paesaggio e cose), prima di addentrarci nella trasfigurazione che l’artista impone ai propri pensieri, immaginando viaggi di sconfinate peregrinazioni attorno alla motilità di colorazioni sfumate a perdifiato. Colori dalle accese trasparenze diffuse, ricchi del corpo e del bagaglio che si sono portati appresso: ossia la coscienza dell’artista che si percepisce (e che noi percepiamo con lui) a navigare tra questi estremi solo apparentemente lontani, cielo e terra appunto, nello spazio intermedio tra i quali scorre il quotidiano del vivere. Si guarda in alto, o ai confini dell’orizzonte, mentre si portano i piedi a calpestare sentieri fitti di rami intrecciati.
Dove vuole portarci dunque questa geografia, o meglio sarebbe dire questa cosmogonia, dell’errante Paolo Facchinetti? Forse solo a considerare la natura peregrinante dell’esistenza, disposta a lasciarsi sorprendere dalla profondità meditativa di un cielo terso o luminoso o rannuvolato o notturno, a lasciarci interrogare dall’inestricabile groviglio di rami e radici che i casi della vita ci chiamano ad affrontare.
In ogni caso, a considerare come la bellezza di queste rappresentazioni costituisca una ottima compagna di viaggio.
Trescore, giugno 2022