Vita, arte, mostre e libri

Le opere di Paolo Facchinetti fanno respirare. Ridanno speranza. Fanno sorridere di un sorriso sereno pieno di aspettative sul futuro. Perchè, co-protagonista delle opere esposte in questa mostra, è la bellezza.

Non tutta l’arte è bella, ma soprattutto non tutti gli artisti si prendono la briga di essere messaggeri di bellezza, che è un valore ancora più alto. Paolo Facchinetti sì.

In questa esposizione, che mette in luce solo una parte del suo percorso e che invece suggerisce soltanto alcune strade che l’artista ha intrapreso o sta scoprendo, campeggiano volti, mani, corpi, a volte nitidi e crudi come una fotografia, a volte quasi pixelati, a volte evocati da pennellate veloci e segni sovrapposti.

Ci troviamo di fronte a una sfilata di persone: alcune sono personaggi famosi, altre sono solo immaginate prima dagli autori dei libri che abitano e poi dai lettori, da un lettore, Paolo Facchinetti. Ci sono amici, perfetti sconosciuti, madri, figli. C’è lui stesso. In questa sfilata camminano l’una accanto all’altra, senza divisioni di provenienza, senza unità di valore, semplicemente persone.

Forse stupirà questa scelta: Paolo Facchinetti è noto per le sue composizioni astratte, per le sue stratificazioni segniche che arrivano all’informale. Quasi. Ma la divisione tra astratto e concreto non è poi così netta. In fondo c’è sempre una compresenza dei due aspetti, in ogni cosa abbiamo una sfera concreta e una sfera astratta. Ad esempio, come spesso si dice, ogni esito astratto ha le radici in uno stimolo visivo concreto. In questa esposizione il dialogo tra concreto e astratto si ribalta. Qui abbiamo degli esiti concreti, tra il fortemente naturalistico e l’espressionista, ma che in realtà sono veicoli di qualcosa di astratto, perchè quello che Paolo Facchinetti riesce a mettere in mostra è ciò che sta dietro ad ogni persona, il vissuto personale.

La bellezza che abita ognuna di queste persone scaturisce dalla capacità di Facchinetti di mettere in primo piano non l’involucro ma il contenuto.

Negli occhi di “Emma”, stanchi e dalle palpebre appesantite dagli anni, che si perdono in chissà quanti ricordi e chissà quali pensieri, riverbera la ricchezza di una vita vissuta, la profondità dei legami costruiti, la tenerezza e l’amore di chi la conosce bene. E quel viso brilla di una bellezza unica e innegabile, che gli appartiene molto più profondamente di quanto gli appartengano i lineamenti. Le pennellate diventano quasi carezze, tocchi caldi e avvolgenti, delicati ma in grado di portare alla luce la forza di questa donna.

Certo Facchinetti possiede una facilità segnica che gioca a suo favore, sia che si tratti di oli che si tratti di disegni. Questo non significa che la sua pittura sia un’attività semplice, anzi. La stratificazione di una vita, di cui parlavamo, trova il suo contrappunto nella stratificazione segnica e materiale di cui sono fatte le opere di Paolo Facchinetti. Un mettere e togliere di materia, un graffiare via, un tornare su opere già create e che sembravano concluse ma che ancora non riuscivano a dire quello che l’autore gli aveva suggerito. Un coprire e svelare continuo, un lavoro di analisi e di ricerca della soluzione perfetta per far parlare chi deve parlare, l’opera, non l’autore, e men che meno il critico.

E le soluzioni formali trovate sono molteplici e diversificate.

Anche dalla volontà di distinguersi nasce per esempio, intorno al 2010, la ricerca su una nuova tecnica che potesse far emergere l’immagine, tecnica che utilizzerà in diversi ritratti: la tecnica del timbro. Nel sovrapporsi di centinaia di segni impressi da timbri quadrati, di dimensioni variabili ma comunque piccole, nasce l’immagine finale in bianco e nero. Ogni timbro è diverso dall’altro, sia perchè nasce da matrici differenti sia perchè ogni impressione è necessariamente diversa dalla precedente per intensità, direzione, posizionamento. Addirittura questi piccoli quadrati a volte contengono a loro volta texture quadrettate, in un riecheggiare di moduli che frantumano e ricompongono l’immagine all’infinito. Il risultato crea un certo sconcerto: da una tecnica apparentemente fredda, meccanica e che lascia poco spazio al segno, emergono figure calde e avvolgenti, in un certo senso un po’ pop, che richiedono anche una dose di impegno visivo per lo spettatore che deve avvicinarsi ed allontanarsi per “mettere a fuoco” l’immagine, per riconoscere sì il tutto ma anche il dettaglio. Diversa la tecnica sì, ma simile l’intento. Ogni immagine emerge dalle relazioni tra i dettagli, dalla vicinanza dei segni e dal susseguirsi di strati.

D’altra parte “vedere” una persona non è certo una cosa meccanica. Un persona non si “vede” in una volta sola, la si scopre avvicinandosi ma anche allontanandosi, la si approfondisce scavando, scardinando gli strati superficiali per andare oltre. La si scompone e si ricompone in continuazione durante la relazione che abbiamo con essa, la si forma e disfa nella nostra mente, nella nostra anima, e mai riusciremo ad avere di lei un’immagine fissa, neppure un’idea fissa; le persone sono un continuo divenire.

Ma ecco che in questa continua mutazione di vite e di relazioni, Paolo Facchinetti riesce a cogliere la bellezza specifica di ognuno. La bellezza dei segni lasciati dalle prove della vita, la bellezza di uno sguardo fiero di un uomo che ha combattuto per grandi ideali, la bellezza di compositori e direttori d’orchestra presi dal vortice della musica che non li lascia fermi, mai, che li attraversa, che in loro entra e da loro esce. La bellezza di una risata amica, quella di Annette. Parlando dei ritratti di Annette lo stesso Paolo racconta che inizialmente non ne era del tutto soddisfatto, trovava che a loro mancasse qualcosa che li rendesse vivi, accattivanti. E allora ha raschiato le superfici, rendendole simili a una vecchia pellicola cinematografica. Certo, mancava il tempo vissuto, quello che conferisce ulteriore valore alle persone.

Ecco perchè trovo che l’arte di Paolo Facchinetti sia un’arte fortemente positiva, che mette in luce il bello. Non stupisce che soggetto di alcuni suoi ultimi lavori sia il cielo. Superfice a volte apparentemente piatta ma sempre profonda, di cui non si conosce l’inizio né la fine, in cui abita per eccellenza l’infinito e mossa da un continuo divenire di tinte. Soggetto che ci fa guardare in alto; respiro; bellezza.

Beatrice Dott.ssa Resmini, Castel Rozzone, ottobre 2017