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Una gita sul lago

Mentre il filosofo si interroga incessantemente sulla reale esistenza del mondo, chiedendosi fino a che punto esso sia materia della nostra costruzione mentale, il pittore assicura per certo che tra noi e le cose ci sono per lo meno i nostri occhi, soglia traslucida per i bagliori che animano il loro apparire. Il fotografo ne ha tratto un meccanismo artificiale capace di capitalizzare la chimica della loro impressione. Ma sa anche che, senza il suo sguardo, dal quel processo tecnico non si ricava che una povera segnaletica del materiale. I vecchi timori della pittura nei confronti della fotografia si sono dissipati presto sotto il sole di questa inesorabile evidenza. Il pittore non ha mai smesso, per quanto ne possa dire il filosofo, di guardare il mondo e di vederci qualcosa, catturandone l’essenza nel retino/cacciafarfalle del suo occhio, crocevia non solo di lampi ottici e dati fenomenici, ma soprattutto di densità memoriali e condensazioni immaginifiche. Lo sguardo fa esperienza del mondo come immaginazione prodotta dalla memoria. La realtà è sempre in qualche modo immagine impressa dal ricordo. Noi umani, come quei telescopi inconcepibili che riescono a captare la luce del bagliore primordiale, guardiamo sempre una luce che si è già spenta. Quando essa ci raggiunge, non tocca semplicemente la nostra retina, muove proprio le nostre immagini interiori e attiva le nostre facoltà memoriali. La realtà, seppure nell’intervallo infinitesimale di un battito di ciglia, è sempre l’immagine di un ricordo. Sotto questo profilo ha qualche ragione anche il filosofo. Il mondo esiste davvero. Ma per noi non esiste senza la memoria che lo immagina.

In questi nuovi lavori, col cui rigore formale si è cominciato a familiarizzare nella mostra a Trescore di poco tempo fa, Paolo Facchinetti sembra voler rendere tangibile questo dato di coscienza che non smette di alimentare il compito della pittura. Lo abbiamo lasciato al tempo dei suoi cieli formidabili, messi come lenzuola piegate con ordine nel quadrato di tele dalla misura precisa, come bolle atmosferiche in cui la panna montata delle nuvole persiste a contendere spazio a dell’aria azzurra, turchina, cerulea, qualche volta rosata, come del vino per le occasioni giuste. Quei cieli sembrano ora fluttuare in uno spazio che non ci viene più reso visibile. In cambio affiorano toni di una tavolozza apparentemente più bruna, cupa, nerastra, ma non plumbea, striata da lampeggiamenti luminosi che sottraggono ogni cosa all’oscurità e mostrano il mondo come nel momento della sua nascita. L’osservatore ignaro, che ama la convenzione di visioni descrittive, non vedrà qui dentro che consueti esercizi dell’informale, quell’astrattismo diventato, dopo quasi un secolo, una lingua persino abusata, quella mania decorativa che senza troppo impegno ha imparato a servirsi di qualche impressione senza forma. Ma il cultore attento, armato della pazienza che va chiesta all’occhio prima ancora che all’anima, vedrà affiorare qui dei paesaggi, delle scene naturali che vengono alla luce come il profilo delle cose nei primi istanti di un’alba, un mondo che sorge dal niente come un cieco che riacquistasse miracolosamente la vista. Questa arrendevole concessione al tempo gli farà chiaramente comparire, come contorni nel liquido dello sviluppo fotografico, forme acquatiche e vegetali, vaghe ma ineccepibili, intrecciate e dialoganti su linee spaziali che tratteggiano orizzonti, quel sottile distacco che separando il sotto e il sopra fa nascere il mondo. Non serviranno didascalie per intuire scene di naturalismo acquatico, che la perizia pittorica di Paolo Facchinetti compone senza retorica coloristica e con totale sobrietà di artifici, miscelando forse senza volerlo atteggiamenti che a qualcuno potrebbero ricordare per un verso il vaporoso impressionismo di Turner e per altro verso gli spruzzi centellinanti di Pollock; ma solo così per assegnare un’araldica a qualcosa che qui il pittore sa fare per proprio talento e invenzione. Ascendenze ve ne saranno di più pertinenti e gli affezionati della sua ricerca li sapranno scovare con occhio penetrante e infallibile. Ma questa congiunzione di attitudini, che unisce un romanticismo contemplativo di fondo a una più nervosa nebulizzazione della materia pittorica, configura una originalità palese, una poetica del tutto autonoma, personale, interiore, che non manca però di affondare le radici in una tradizione assai profonda. Nella sua persistente scia, qui la pittura rende conto allo sguardo, fa del ricordo un’immagine, testimonia della consistenza del mondo, ma nel contempo anche l’indispensabile mediazione dell’occhio che ne trattiene la tangibile sostanza. Serve sempre un’anima per far esistere la materia.

Se poi qualcuno potrà ascoltare le confidenze dell’artista, verrà a sapere che queste visioni sono il frutto di una gita sul lago, un concretum biografico tradotto in resoconto artistico, con rarefatta distillazione della memoria e consolidata tecnica espressiva. Paolo Facchinetti si mette tra noi e una parte di mondo come una vivente camera oscura da cui trapassano impressioni che sono nel contempo di materia e di spirito. Lasciandoci l’impressione che per noi esseri animati che abitiamo questo mondo non può esistere l’una senza l’altro.

Giuliano Zanchi, Bergamo 13 settembre 2019