Vita, arte, mostre e libri

Per un viaggio nell’universo immaginativo di Paolo Facchinetti

Paolo Facchinetti è sicuramente una figura d’artista complessa, “un’anima inquieta” si potrebbe definire, se riusciamo ad investire la frase, ormai logora e consumata, di quel tanto di humor ed ironia, che, soli, possono consentire il distacco dalle cose e dalle immagini proposteci dall’artista.
Bergamasco, per formazione e cultura, egli lascia intravedere attraverso il suo lavoro, un’ansia che sin dagli inizi lo porta ad una continua ricerca e sperimentazione delle valenze plurime dei linguaggi, dalla pittura, alla fotografia, al disegno, per tentare con quelli l’individuazione, nelle possibilità delle diverse tecniche, di una via espressiva delle urgenze interiori che lo agitano.
Alcune parole, di natura autoanalitica, scritte da Facchinetti e messe a mo’ di occhiello in apertura di un suo catalogo edito per una mostra nella galleria Cà Gromasa, ad Albino, sono particolarmente illuminanti rispetto a quest’inquietudine che trova nelle proprie contraddizioni interne la sua spiegazione e vitalità.
Scrive Facchinetti: ” La pittura è la mia solitudine, ma soprattutto la mia salvezza, la mia libertà….”.
Vale a dire, tentando d’interpretare il senso di quelle parole, che per quest’autore la pittura diviene luogo di angoscia che lo isola e separa dal mondo contemporaneamente, però, essa non gli impedisce di riconoscersi nel mondo, ma, semmai, l’impedimento sta nell’essere riconosciuto da quello; di qui l’amarezza angosciante. Al tempo stesso, comunque, essa (la pittura) è luogo di libertà, quindi, di salvezza perché consente il libero volo dell’immaginazione, della fantasia, ergo la creazione di un proprio universo, di un altro mondo in cui riconoscersi e dal quale essere riconosciuto, dove non esiste la solitudine e dove la strana alchimia di un segno, di una forma o di un colore possono dar vita e visibilità alla poesia.
La pittura, l’arte, quindi, come luogo di contraddizioni, di dannazione e di salvezza, questo sembra essere, in sintesi, il senso del lavoro artistico di Paolo Facchinetti.
Con intelligenza, Viola Giacometti, scrivendo del suo operare evidenzia che: ”Al di là dei dualismi (formale/informale, figurazione/astrazione) che caratterizzano un percorso artistico, ciò che s’impone di fronte alle tele di Facchinetti, è la complessa fenomenologia di un segno pittorico nelle sue evoluzioni…”.
Il filo, infatti, che lega le varie esperienze è sempre quello che vuole dare forma ad un contenuto interiore. Ecco, allora, che le tele, la pittura di quest’artista divengono espressione di qualcosa che è altro da sé; non più rappresentazione o raffigurazione di una cosa o di qualcuno ma forma del contenuto e le tele, con i loro soggetti, altro non sono che i mezzi, strumenti di un particolare concerto teso alla ricerca, attraverso le immagini appunto, “dell’anello che non tiene “, in altre parole, del misterioso rapporto dell’io con il mondo.
Un luogo, perciò, quello della pittura, che diviene musica sofferta e melodiosa, dove la pennellata forte dialoga con la trama fitta della tela.
Allora la frase di Facchinetti citata prima e messa ad occhiello del catalogo del 1998, se affrontata con questa chiave interpretativa, acquista una maggior valenza ed un significato forse meno inquietante e contraddittorio.
Quello che egli percorre, infatti, è un lungo cammino nell’universo dell’immagine e non importa che si tratti di opere formali o informali, di dipinti o di fotografie o di disegni a matita dove l’espressività della forma è data più per “assenza” (il segno cancellato) che per “presenza” (il tratto ancora conservato). Lì il segno definisce un percorso, diviene quasi un grido, emesso con irruenza sul foglio o sulla tela, dove, però, l’apparente istintività gestuale è ben controllata dall’autore che sa come e quando fermarsi e ciò che vuol fare.
In tal modo il segno di Facchinetti traduce in forma non tanto il soggetto o una figura particolari bensì la dimensione della sua esperienza e conoscenza, il suo sentire interiore.
In questo passaggio culturale, nella metamorfosi dell’oggetto, cioè, in forma d’esperienza e di conoscenza, è da individuarsi anche l’origine dell’ansia e dell’inquietudine che porta questo artista ad una continua ricerca. È la tensione, la consapevolezza dello scarto, dello smacco che inevitabilmente fa parte della ricerca, la quale è, comunque, elemento costitutivo e non eludibile di quel viaggio culturale che dà corpo al “sogno”, di cui ci dice, sempre nell’occhiello Paolo Facchinetti.
Ci sembrano questi gli elementi portanti, i postulati da cui partire, le chiavi di lettura per addentrarsi nel vasto e, solo apparentemente, contraddittorio mondo di Paolo Facchinetti, pittore di Nembro, in quel di Bergamo.
Occorre aggiungere anche, in sintesi finale, che questo viaggio nell’universo immaginativo del pittore bergamasco, da noi tentato, poiché egli si avvale tanto di strumenti diversi quanto di varie soluzioni linguistiche, va effettuato su un doppio binario, quello che ci porta a riflettere sui modi e sugli stili, i riferimenti culturali, intendiamo, che sembrano attraversare la sua vicenda pittorica e quello che, invece, ci porta all’individuazione di una sensibilità più alta, legata alla ricerca di una vibrazione interiore che emerge con chiarezza di là delle contingenze di riferimento.

Urbino 2006